Quello di “Gender washing” è un concetto semplice che riunisce un insieme di tecniche di marketing volte a ripulire l’immagine di un’azienda attraverso la sapiente strumentalizzazione del genere sessuale del potenziale acquirente. Riconoscere correttamente una campagna pubblicitaria di questo tipo è affare, spesso, piuttosto complesso.

Alcune aziende illuminate (una fra tutte la Lego) sviluppano da sempre corrette strategie di comunicazione incentrate sulla parità di genere, schierandosi con chiarezza nel dibattito civile con l’effetto di aumentare considerazione e fedeltà verso il brand.

Per evitare di confondere queste ultime con le chiacchiere ruffiane di tanti concorrenti, possiamo sfruttare cinque dimensioni della coerenza (sentire, pensare, linguaggio, agire, contesto).

1. Coerenza nel sentire, fra brand propriamente inteso, la sua storia e la campagna pubblicitaria oggetto della nostra analisi. La prima cosa che dobbiamo domandarci nella nostra analisi è se, considerate le impressioni consolidate nel tempo su un determinato brand, ci saremmo mai aspettati un certo messaggio accostato al logo di quella determinata azienda.

Samsung, nota marca di.. tutto, ha lanciato una bellissima campagna promozionale/concorso dal titolo “Women of steel“, per celebrare “[…] alcune fra le più belle donne . Le donne i cui punti di forza sovrumana ne fanno modelli di ispirazione […]”: peccato che, in passato, ci abbia proposto in vari modi di rimanere nella mente della nostra mamma con aspirapolvere e lavatrici.. Ah, quasi dimenticavo! Il premio per la donna d’acciaio è, ovviamente, una cucina.

 2. Coerenza nel pensare, fra senso del messaggio veicolato dalla campagna e fine del prodotto pubblicizzato. In questa fase della nostra verifica dobbiamo chiederci se il prodotto ha una reale, anche remota, connessione sostanziale con il brand. Che senso ha, ad esempio, parlare di genere nel mercato automobilistico o etichettare una località come “gay”?

3. Coerenza nel linguaggio, soprattutto in quelle campagne pubblicitarie che fanno largo uso di stereotipi di genere. Pesiamo bene parole ed elementi di comunicazione visuale con cui ci viene proposto un prodotto mettendo a confronto la realtà offerta dalla promozione con quella che conosciamo.

Giudicate voi la campagna “Men vs women” di Nike.

 4. Coerenza nell’agire, fra tipologia astratta di prodotto e la sua effettiva realizzazione da parte dell’azienda.

Mattel ha aperto da qualche tempo il profilo linkedin di Barbie, “per ispirare le ragazze a sognare in grande“.. fatevi un giro. Barbie ci scrive con fierezza che dal 1959 ha “avuto 150+ carriere“: sfido chiunque a trovare anche solo una lavoratrice comune che si atteggi come la famosa bambola o che abbia una vita così mondana.
Il “pacchetto” sarebbe stato credibili – anche nelle intenzioni – se l’azienda avesse anche solo accennato banalmente ad esempi di grandi donne del passato, alle difficoltà e alla bellezza del rapporto familiare o ad altri mille possibili argomenti concreti, più o meno gradevoli, che accomunano tutte le donne che lavorano sodo ogni giorno.

5. Coerenza al contesto (non sempre una cosa positiva), verificabile attraverso l’individuazione di quelle campagne create ad hoc in specifici periodi dell’anno o al verificarsi di eventi particolari (e.g. instant marketing) seguendo correnti, mode o ricorrenze. Ciò che spicca in questi casi è l’inopportuna presenza di un’azienda nel “dibattito pubblicitario” scatenato su determinati temi sensibili nei casi in cui il marketer cerchi di fare entrare forzatamente prodotto e/o logo in situazioni in cui sarebbe meglio tacere per tanti motivi. Una delle innumerevoli eccezioni alla filosofia del “non importa che se ne parli bene o male, l’importante è che se ne parli“.

Esempio è la campagna “Ferma il bastardo” di Yamamay datata 2013 – i 365 giorni che la più importante agenzia di stampa del nostro paese ha definito “anno nero per i femminicidi“. La nota azienda di intimo, che investe da sempre ingenti somme su prodotti di comunicazione incentrati sullo stereotipo della perfetta donna-oggetto, pulisce il brand sulle spalle di una vera e propria piaga sociale con una discutibile campagna dallo scarso appeal comunicativo, dal linguaggio aggressivo in modo inaccettabile e di mera sensibilizzazione astratta – che non ha previsto alcuna azione concreta a favore, ad esempio, di associazioni che lavorano sul tema (visto il fatturato annuo, qualche spicciolo in fondo alla tasca potevano anche darlo in beneficenza.. avete ragione, scusate: in mutande e reggiseno non ci sono tasche).

 Qualora il prodotto uscisse compromesso dalla nostra “verifica della coerenza” potremmo avere il legittimo sospetto che si tratti di gender washing e, magari, iniziare a fare un po’ di consumo critico semplicemente cambiando marca e parlando a nuovi potenziali acquirenti di quello di cui ci siamo accorti. Non è necessario lanciare una molotov in un capannone per cambiare le cose: creatività in piccoli gesti e consapevolezza nelle scelte sono le armi più forti a disposizione di ogni consumatore.